E il naufragar ci è dolce…
Scritto da Michele Di Donato
Corpi alla deriva, anime sul fondo; dal corpo all’anima, partendo da una tela dipinta per raggiungere un senso profondo passando attraverso la scena. Mare Dentro, portato in scena dalla compagnia Teatro KappaO, è un viaggio lungo che parte da una deriva reale e storicizzata per farsi allegoria diacronica; un episodio storico – il naufragio della fregata francese Méduse – ed il dipinto di Théodore Géricault che ne eternò memoria ne costituiscono lo spunto, la messa in scena ne approfondisce l’essenza con pittoricismo poetico.
Breve sunto in preambolo per capire di cosa si parla: giugno 1816, la fregata Méduse, inviata dal governo francese a svolgere missione coloniale lungo le coste del Senegal, si arena su un banco di sabbia a largo della Mauritania, a causa dell’imperizia e dell’inadeguatezza di chi la comandava. Scialuppe insufficienti a contenere tutti gli occupanti della nave, sicché parte di essi finisce alla deriva su una zattera di fortuna, sulla quale naufragano in centoquarantasette, riescono a salvarsi solo in tredici; la disperazione, la follia, il cannibalismo sono passeggeri invisibili ma terribilmente presenti sulla zattera della Medusa. La tela di Géricault restituisce l’aberrante episodio con una veridicità impressionante, corpi di carne mutila e putrescente, alla deriva in un mare in cui l’azzurro ha ceduto il posto a tinte fosche, quasi da tempesta giorgionesca, dalla cui visione pare quasi esalar sinistro lezzo di morte.
Questa tela, con la triste zattera ricolma del suo carico di morte, campeggia a tutta scena come fosse un sipario; non le tocca sparire ma sbiadire e dietro di sé mostrare corpo d’attore – Gianni Tudino – a percorrere, interpretare e simboleggiare essenze umane che partono da quel dipinto per giungere ad un senso panico dell’umano.
Dietro la tela proiettata come un ologramma, Tudino è naufrago e pittore, ma è soprattutto essere umano alle prese con una deriva simbolica, in balìa non dei flutti che sballottarono la zattera, ma delle implicazioni esistenziali che pure la visione della tela implica: l’aberrazione, la crudeltà, homo homini lupus, non tutti per uno ma ciascuno per sé; il mare tutt’intorno, come incombenza ineludibile, leviatano da fronteggiare. Sulla scena un corpo d’attore diviene ipostasi dell’esistenza che affronta la tempesta, naufrago e pittore, s’inerpica su un cavalletto mastodontico in centro di scena, fulcro visivo centrale, come fosse l’albero maestro cui tendere per trovare guida, per svolgere esperienza catartica attraverso l’arte – e segnatamente la pittura – come se l’opera di Géricault, testimonianza vivida e carnale, verità strappata all’oblìo del fondale marino, potesse esperire così missione testimoniale, mostrare la brutalità efferata dell’uomo come pagina di un bestiario, monito da tener presente per non emulare.
S’interroga, Théodore, sul valore della pittura, “quanto vale la pittura, quanto vale il racconto?”, ed il suo interrogarsi sul particolare sembra voler tendere all’universale, in scena si parla di un naufragio e della sua rappresentazione iconografica, ma l’allegoria allarga lo spettro della questione su un piano metastorico e atemporale, muovendosi su una cifra poetica che ci suscita le più disparate analogie per evocazione (dall’Allegria di naufragi di Ungaretti a Coleridge, passando – ma solo di striscio – per Martin Eden). La tela che prima sbiadiva ora sparisce, l’immagine cede il passo alla parola, dalla pittura al racconto, mentre luci e rumori contrappuntano i movimenti di scena, in un variare di toni e cromie che spazia dal blu intenso del mare all’ocra sabbioso in cui corpo d’attore s’acciambella in assito naufragato; il gioco delle dissolvenze confonde i piani fino a svanire nel fioco digradare del lume di una candela; la voce di Vinicio Capossela intona invocazione alla Santissima dei Naufragati.
L’intento poetico è raffinato e delicato, racchiuso in una partitura scenica calibrata e non debordante, che punta molto sulle immagini, sulle rifrazioni cangianti che adoperano il velo frontale come filtro, parete invisibile su cui si proietta il dipinto e alle cui spalle vive quel che significa dietro al dipinto.
Poesia per immagini e parole, a colpi di pennello e a suon di racconto, uso sapiente di luci e corporeità, Mare Dentro (sarà che abbiamo un debole per le derive esistenziali) rende l’esperienza della visione un dolce naufragare.
Il Pickwick
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